In San Pietro il forte messaggio della “Grande porta di Kiev”

Suggestioni plurime nel concerto di Alexander Gadjiev, un pianista da entusiasmo

Amici della Musica in subbuglio come raramente capita: qui in san Pietro sabato sera si sono toccati toni da esaltazione, come si riserva ai grandi interpreti. Alexander Gadjiev, italiano di Gorizia, anche se nato da genitori russi, ha mostrato di essere in possesso di tutti i crismi del talento. A cominciare dalla età imberbe del debutto concertistico, alla messe di premi internazionali che ha mietuto, all’indubitabile capacità di attrarre il pubblico nel gorgo del suo virtuosismo. Ma quel che va confermato è la caratterizzazione delle sue scelte di interprete, perché si sente che sotto questo austero ragazzo dalla apparenze giovanili c’è un profondo mare in tempesta che aspetta solo di scegliere dove indirizzare i suoi uragani.

In un programma dove non si sapeva cosa aspettarsi, data la sovrapposizione di stili e di letteratura, il magistero di Gadjiev si è fatto strada lentamente, conquistandosi consensi alla esposizione di ogni autore. A cominciare da quell’iniziale Franck del “Preludio e fuga op. 18” che una trascrizione dall’organo, ma che ci ha fatto seriamente pensare alla proustiana “Sonata di Vinteuil”, quel motivetto leggero e sognante che percorre tante delle pagine della Recherche, ma che invano si è cercato di individuare. Lo stesso Proust ci ha confuso le idee affermando che non è Franck, non Saint-Saens, non Faurè, ma una sintesi onirica di tutti, Hahn compreso. Neanche Spitzer e Magnani ci cavarono le mani e allora tanto vale buttarla lì e credere che questa sottile filigrana dell’enunciato iniziale dell’op.18 possa essere veramente quella impalpabile ragnatela che attira a sé tutti i ricordi e le impressioni di un amore mai completamente sbocciato. Bisognerebbe chiedere a Gadjiev il motivo di questa scelta, anche perché il pezzo non è virtuosisticamente rilevante, e serviva solo a planare sulla silloge dei pezzi di Chopin che erano destinati a seguire. Ora, qui bisogna seriamente chiedere che motivo c’è di suonare ancora i Notturni di Chopin, pezzi abusati di ogni concertismo. Si cerca il consenso, è vero, ma pochi, pochissimi hanno la capacità di farci sentire la frattura tra io e non-io, tra coscienza e sogno che sono una delle cose più drammatiche di questi pezzi. Nessuno, in questi Notturni, e neanche Gadjiev l’ha fatto, va a cercare il suono straziante dell’urlo di Munch. Piacciono al pubblico, li si suona con nitore, si strapazza un pò la parte centrale e parte l’ applauso, entusiasta. Se poi ci agitate una manciata di accordi e di ottave dello Scherzo op. 39, il consenso si fa belluino.

Ne eravamo tutti partecipi, perché un concerto non è un recital di filosofia e le leggi dello spettacolo hanno le loro esigenze. Siamo persuasi che Gadjiev si sia annoiato il giusto in questa sezione chopiniana che era comunque necessaria per “fare punti” per quanto veniva a seguire. Perché la Sonata detta “Messa nera” di Scrjabin, l’opera 68, è una delle più abili mistificazioni addebitabili a un musicista che rivela sempre più la sua “tossicità”. Nell’anno commemorativo la grande Mariangela Vacatello gli ha dedicato una edizione integrale e un letterato perugino, Lorenzo Chiuchiù ci ha scritto un sostanzioso, inquietante romanzo. Ma non se ne viene a capo di niente e il maestro della poltiglia simbolista rende sempre più sfuggenti i suoi liquidi contorni. Un Golem russo, un dispensatore di indicazioni interpretative che sembrano quelle di Satie. Ma almeno, per lui erano ironia. E si sa che i russi prendono tutto maledettamente sul serio. Resta l’interrogativo se Gudjiev era consapevole di suonare al cospetto del grande telario della parete di fondo della chiesa di san Pietro, il cosidetto “Trionfo dell’ordine benedettino”, dove in molti ravvisano occhi e

volto del Maligno. Se avvertito, l’ottimo Alexander non si è fatto intimorire e ha ornato la sua “Messa nera” di tutti gli artifici del caso, suono nitido e stagliato, trilli frementi, rigogoli ritmici nervosi e inquieti e un concreto affondo sulla tastiera che era indice di desiderio di dominare questa materia così infidamente liquescente.

Poi, quando siamo arrivati alle variazioni “Eroica” di Beethoven, si è capito il perché di tanto tergiversare. Gudjiev voleva qui farci sentire la sostanza del suo pianismo possente, un plasma pieno di energia che si è trasmesso al pubblico come se ora cominciasse qualcosa di serio. Difficile trovare un interprete in grado di capire la carica innovativa che Beethoven riservava a queste sue Variazioni pianistiche, intimamente legate alla Sinfonia Eroica, la più “creativa” delle nove, ma ancor più legate ai futuri esiti del suo pensiero compositivo. Perché qui, nella microstruttura, Beethoven, più che nel tronfio esplodere della Sinfonia, esperimenta le sue capacità innovative, adottando un linguaggio faunesco, multimorfico che porterà all’acuminata profezia delle bagattelle. Come in un testo di Queneau, le variazioni-Eroica sono retorica applicata, architettura combinatoria, avvincente gioco enigmistico che opera sulla sintassi musicale con la continua frantumazione della sostanza espositiva. Detto in poche parole, si crea un quadro sonoro, poi si frantuma e se ne espone un altro, ma il motivo è sempre riconoscibile, anche se cambia continuamente veste. E qui abbiamo sentito Gudjiev convocato al gioco che aveva stabilito: dominatore umorale, possente nelle sonorità, scattante nei ritmi, agile nelle piroette, mordace nell’umorismo. Una tavolozza da vero esegeta, un virtuoso pieno di rispetto per quello che suona. Al punto di stupirci tutti al secondo bis, quando ha snocciolato le raffiche di accordi della “Grande porta di Kiev” da “Quadri di un esposizione” di Musorgskij. Non sappiamo se era una presa di posizione, ma ci ha fatto riflettere, nella rabbiosa violenza di come suonava, su cosa stia succedendo in questa Europa allo sbando, capace di mandare al martirio della guerra tanta sua gioventù.

Avrebbe dovuto fermarsi qui, Gudjiev, ma gli chiedevano di continuare a suonare e lo ha fatto. Senza aggiungere niente a quanto aveva già affermato.
Stefano Ragni

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